CARLINO IL BANDITO

Nel nostro territorio, come in qualunque posto del mondo, si trasmettono oralmente storie  e ricordi, che riguardano spesso luoghi e persone speciali, destinati piano piano a entrare nell’oblio. E’ però possibile tramandarne ancora il ricordo: per i più anziani, qualcuno dei quali potrebbe anche rinverdire vecchi ricordi; per i più giovani, per collegarsi a quelle che sono anche le loro radici.

Riportiamo qui, scritta da una persona che l’ha conosciuto direttamente, un ricordo di “Carlino il Bandito” o “Carlino della Grillotta”, un personaggio fuori dal comune che viveva in un luogo isolato, privo di ogni comodità moderna, presso Monte Spineto (comune di Stazzano, provincia di Alessandria), collegato alla strada solo con uno lungo e stretto sentiero. In una situazione  più comune due secoli fa, ma già molto insolita alla fine del secolo scorso. S.R.



Qualcuno dei lettori meno giovani, ricorderà Carlino il bandito, che viveva da eremita in una piccola cascina piuttosto diroccata, raggiungibile attraverso un impervio sentiero con mezz’ora di cammino dal Santuario di Monte Spineto. Perché fosse detto il bandito non lo so, e neanche lo voglio sapere. Lui non faceva domande.

Carlo, che lo ha conosciuto molto prima di me, ancora bambino, mi racconta che lo andava a trovare di tanto in tanto in compagnia di suo padre, e già allora gli sembrava di immergersi in un mondo surreale. All’epoca c’era ancora la moglie con lui; per anni avevano fatto i custodi del Santuario, quando era praticamente disabitato. Avevano la capra, la mucca e le galline. Egli raccontava che quando era ancora relativamente giovane ed in forze, saltuariamente raggiungeva Vignole a piedi, guadando il Borbera. Agli occhi di un bimbo quelle sarebbero state emozioni che, come è puntualmente avvenuto, avrebbero lasciato in lui un segno indelebile a distanza di tempo. Provo molta stima nei confronti di un padre che, preso per mano suo figlio, trovava il tempo per andare a trovare una coppia così straordinaria, con il probabile scopo di far conoscere ad un ragazzino, abituato agli agi della vita quotidiana di quegli anni, una diversa modalità di sopravvivenza.

Il mio ricordo è invece più recente, seppure di almeno 35 anni fa. Una persona accogliente e serena, all’apparenza forse inquietante per via dei lunghi capelli e del barbone grigio, che si rattristava fino alle lacrime soltanto quando accennava alla sua defunta moglie: una donna speciale che aveva condiviso con lui quello stile di vita, per cui il tempo sembrava essersi fermato al passato remoto. Niente elettricità, niente acqua corrente; una stufa a legna per scaldarsi.

Arrivavi lì senza preavviso, a qualunque ora del giorno o della notte, e lui ti accoglieva senza fare domande, con la naturalezza con cui siamo abituati ad accogliere i nostri cari quando tornano a casa a fine giornata. La stanza a uso cucina, con un vecchio tavolo al centro, era piena zeppa di oggetti di ogni genere. Quali fossero non si capiva in realtà, anche perché io ci sono stata solo quando era buio, e il suo viso e quello dei suoi visitatori erano illuminati da una curiosa lampada ad acetilene, (di cui io, prima di conoscerlo, non sospettavo nemmeno l’esistenza), e che emanava una luce fioca, insufficiente per rendersi conto dell’ambiente circostante. Anche solo accenderla e tenerla accesa era un rito. Intorno a quel tavolo senza tempo, comparivano antiche tazze di ogni genere, di ceramica o di metallo, che aveva la compiacenza di sciacquare, prima di riempirle, in un secchio d’acqua che teneva lì accanto. Acqua probabilmente del pozzo, unica fonte da cui attingere per lavarsi, cucinare e bere. In verità per bere non mancava mai il vino, che a suo dire gli avventori gli portavano insieme alle sigarette. Se eri fortunato, potevi degustare anche la sua “acqua di fonte”: una sorta di grappa da lui prodotta, che leggende raccontano avere “steso” visitatori anche di un certo “rilievo” sociale.

Si entrava così in un’altra dimensione. E, mentre raccontava, non potevi fare a meno di ascoltare incuriosito. E nello stesso tempo di pensare a come fosse possibile, a un passo dal secondo millennio, che un essere umano potesse avere fatto una scelta così estrema. Lontano dalla civiltà, o dal nostro concetto di civiltà, (pur trovandosi in realtà a pochi chilometri dal paese più vicino). Ma, senza dubbio, dotato di più apertura verso il prossimo, di una filosofia di rispetto totale nei confronti del pensiero altrui. E di un’attitudine nel centrare le problematiche di chi aveva di fronte dopo poche battute, davvero superiore rispetto ad una moltitudine di persone conosciute nella mia vita, e facenti parte della cosiddetta normalità.

Racconto di Monica Malatesta; con la collaborazione di Carlo Bidone

L’immagine è una Natura morta di Renato Guttuso, anno 1956

2 Replies to “CARLINO IL BANDITO”

  1. Di solito ci andavamo a mangiare le sue formagette di pecora che erano una bontá scuisita inoltre aveva dei salami buonissimi queste cose le ricordo bene succedevano circa 55 anni fa quando eravamo ragazzi e di tanto in tanto ci andavamo a fare qualche ribotta, il Carlino era una persona speciale questo ve lo posso assicurare con la sua accoglienza sempre sorridente verso tutti ofriva quel poco che aveva con cuore chiedendo pochi spiccioli x i suoi piatti genuini,ricordo anche che faceva un pane meraviglioso cotto nel suo forno rudimentale ma genuino senza tanti aditivi come ora , dispiace solo che persone così non esistono più.

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