SCHEGGE DI VALLE SCRIVIA AL…FEMMINILE

Bandiera della pace di oggi, bandiera della pace di ieri

“In occasione dell’8 marzo, pubblichiamo questa interessante nota storica che ci è giunta da Busalla a firma di g.t.”

Questo drappo multicolore, dei “Partigiani della Pace” che, negli anni Cinquanta, all’epoca della “guerra fredda”, combatterono in condizioni difficilissime, fu in testa al corteo dei soci della “Liberi Operai” cacciati illegalmente dalla loro sede, nell’agosto 1954, dalla polizia del governo dell’epoca. Con questa bandiera ad aprire il corteo c’erano, non casualmente, tre donne: Pina, Vincenza e Majan.

Le facciamo rivivere, e con loro tante altre donne, contadine, operaie, impiegate, casalinghe, della nostra vallata, nell’anniversario dell’8 marzo, “Giornata Internazionale della Donna” e non semplicemente Festa.

LA VALLE SCRIVIA E IL MONDO FEMMINILE

Il simbolo di questo rapporto può essere costituito da due realtà profondamente diverse: le operaie dell’antica Filanda di Isorelle, che non esiste più e le suore Benedettine che da secoli sono presenti nel convento di Ronco Scrivia.

I SIMBOLI

La Filanda è storia di fatiche, da una generazione all’altra di donne (nell’Ottocento si lavorava ben oltre le otto ore, realtà peraltro anche odierna), di umiliazioni, di rivendicazioni sindacali e politiche per una vita diversa. L’antico Cotonificio Defferrari costituisce un capitolo fondamentale della storia delle donne in Valle Scrivia e del movimento operaio della zona. Il Convento delle Benedettine di Ronco è centro di antica solidarietà e preghiera. La sua fondatrice, Benedetta Cambiagio Frassinello (proclamata Santa nel maggio dell’anno scorso da Papa Giovanni Paolo II), accolse qui giovani bisognose di assistenza non soltanto spirituale, ma molto concreta.

Il MONDO CONTADINO

Il lavoro in campagna era faticoso per tutti, in particolare per le donne sulle quali gravava, ieri come oggi, l’attività casalinga. Ma non sempre i proventi derivanti dall’agricoltura permettevano di vivere decentemente, non a caso si emigrava, in terre non troppo lontane. L’America era ancora, davvero, l’altra faccia della Luna irraggiungibile.

I prodotti del suolo, non essendo sufficienti al mantenimento di tutta la popolazione, (Ndr.: di Savignone) uomini e donne sul principio dell’inverno si conducono in Lombardia – scrive Goffredo Casalis nel “Dizionario Geografico degli Stati Sardi” (epoca 1849) – principalmente nelle province di Milano e Pavia, ed alcuni anche in Svizzera, ed in Piemonte per procacciarsi qualche guadagno colle proprie fatiche ….”.

Le donne (Ndr.: di Savignone,) non possono vantare la serena beltà delle Torrigliesi – afferma Emanuele Celesia nel suo libro “Savignone in Val di Scrivia – Passeggiate apennine”, epoca 1874 – non la fresca avvenenza delle giovanette di Casella, e neanco lo svelto ed elegante taglio di persona delle foresi di Montoggio; pur ve n’ha di assai graziose e leggiadre. Senonchè i lavori de’campi in cui si travagliano, e l’accalcarsi che fanno in un vasto opificio che sorge a’ lembi del lor territorio (Ndr.: Celesia si riferisce alla Filanda di Isorelle), ne illividisce i rosei calori di guisa, che ogni vaghezza di forme n’è a breve andare smarrita”.

In questa filanda ai cattolicissimi padroni è permesso infischiarsi di tutto – scrive un giornalista nel dicembre 1907 – e di tutto calpestare: leggi, regolamenti, norme igieniche…Per dei padroni, e per giunta cattolicissimi, non c’è male; che ne dice il reverendo arciprete. Per guadagnare L. 1,30 al giorno, massimo di guadagno raggiunto, quando il cotone era buono, lavoravano come lavorano tutt’ora dodici ore al giorno, occupando pure il tempo che ad esse è concesso per i pasti”.

NELLE FABBRICHE

Al di là della Filanda, la manodopera femminile era utilizzata in diversi stabilimenti della Valle Scrivia: per esempio, la celebre Fabbrica della Birra tra Busalla e Isorelle. A Busalla facevano parte delle maestranze del poco conosciuto stabilimento “delle ciliegie”, oltre che delle Viterie Macciò e, in tempi più recenti, della “Pegliese” di Sarissola. Simbolo dell’occupazione femminile a Ronco Scrivia è un’altra Filanda: la Raggi, poi diventata proprietà Bazzano. Iniziò l’attività nel 1826. La cessò cento anni dopo, nel 1926. A Isola del Cantone, prima e durante la seconda guerra mondiale, le donne erano occupate nella “Bulloneria”, dalla fine del conflitto all’inizio degli anni Settanta nella “Fibla” (Fabbrica italo belga lane e acciaio) e all’Italswift (insaccati).

La crisi industriale della Valle Scrivia, dei decenni scorsi, ha provocato una rilevante riduzione di manodopera, con chiusura di non poche fabbriche, è stata pagata in primo luogo dalle donne.

RITRATTI INDIVIDUALI

Tra le personalità femminili della Valle Scrivia da valorizzare c’è anche l’isolese Bice De Lorenzi, pittrice e professoressa di lingue (da tempo scomparsa), la quale ha scritto un diario molto interessante con notizie riguardanti la vita di Isola Del Cantone, della Valle Scrivia e di Genova, soprattutto durante la seconda guerra mondiale. Inoltre, c’è un’affascinante figura di donna le cui origini hanno radici in Valle Scrivia. La sua vita, breve, ma intensa, è raccontata per la prima volta nel libro “Val Vobbia: mille anni di storia della sua gente, cento anni del suo Comune” di Maria Ratto e Alessio Schiavi. Riguarda Teresa Ratto, pionieristica “dottora” dell’America del Sud. Teresa è nata a Concepcion del Uruguay il 13 febbraio 1877, da una coppia di emigranti della Valle Scrivia: infatti suo padre Angelo Ratto era nato a Vobbia e sua madre, Sabina Rebozzio, a Frassinello in Val Brevenna. “Secondogenita di quindici figli – raccontano Maria Ratto e Alessio Schiavi –, Teresa Ratto nel 1892 ottenne il titolo di maestra e in seguito, come privatista, sostenne positivamente gli esami del 2° e 3° anno al Colegio Nacional del Justo J. De Urquiza. Nel 1895 ottenne per prima in Argentina il “bacellierato” (titolo accademico inferiore al dottorato) e nel 1903, lottando contro le difficoltà e i pregiudizi dell’epoca verso le donne, si laureò in medicina diventando la seconda dottoressa della Repubblica sudamericana. Teresa abitava in una povera strada, che in quegli anni si riempiva di persone in attesa di essere vaccinate gratuitamente, su incarico della Pubblica Assistenza, contro la terribile febbre gialla che faceva strage in Buenos Aires. Durante una di queste campagne insorse una peritonite che la dottoressa Ratto trascurò, troppo occupata ad assistere i suoi pazienti: tragicamente si spense il 2 aprile 1906 a soli 29 anni, tra il cordoglio dei familiari e dei colleghi, nel pieno della sua attività di medico al servizio della gente. Nel settantennio della sua scomparsa il Municipio della città di Concepcion, intitolò la strada dove sorgeva la sua vecchia casa alla “Doctora Teresa Ratto”, atto che testimonia il profondo ricordo che ha lasciato in quelle terre. Anche un’aula del Colegio National porta il suo nome e la casa dove tuttora abitano i parenti è tappa per i turisti che visitano il Capoluogo della provincia di Entre Rios. Ancora nel 1999 il quotidiano “La Calle” ha dedicato due pagine al ricordo di Teresa Ratto, a testimonianza del suo impegno e del suo sacrificio per la professione medica. Quasi sconosciuta nel suo paese d’origine, meriterebbe d’essere ricordata come tanti altri emigranti vobbiesi e dalla Valle Scrivia, che si distinsero nelle Americhe per capacità, sacrificio ed umanità”.

TRA STORIA E LEGGENDA

Concludiamo, tra storia e leggenda, con una vicenda d’amore che ebbe come tragico epilogo il castello di Savignone.

Narra Emanuele Celesia: “Isabella figliola di Carlo Fiesco, fratello di Papa Adriano, ed uno de’ più potenti baroni del secolo XIV, andò sposa a Luchino Visconti, signor di Milano. Bellissima fra tutte le donne dell’età sua, venia detta la Fosca, non so se per corruzione del nome suo gentilizio, o se pei rotti costumi, che ne infoscaron la fama. Infatti, Isabella passò da un abbracciamento all’altro, perciò Luchino pensò di ucciderla. Per sfuggirgli, Isabella si ricovrasse ne’ paterni castelli e forse in questo di Savignone, ove Luchino ebbe modo di spegnere il cavalier mantovano ch’ivi l’aveva raggiunta. Che cosa in ciò v’ha di vero? Difficile il dire. Certo è però, per gravissime testimonianze di scrittori, che la genovese, reduce nella sua reggia, propinava al marito un veleno che in breve lo spense. Or la fantasia popolare crede scorgere nelle fiammelle del Salto dell’uomo le anime dei due amanti: e il serpe che s’aggruppa talor sul dirupo accenna senza alcun fallo a Luchino Visconti ch’avea per impresa il biscione”.

Dalla fantasia alla realtà. 8 marzo: non burocratiche quote “ghetto” di genere, ma diritti e rispetto.

Articolo giunto in redazione e firmato da G.T.

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