UN DISASTRO URBANISTICO CHIAMATO NOVI

Il Piano regolatore del 1968 prevedeva per Novi Ligure uno sviluppo abitativo di 68 mila abitanti. Sulla base di quella aspettativa gli urbanisti disegnarono una città sovradimensionata a quelle che invece erano le vere necessità dell’epoca. Novi infatti nel 1961 aveva una popolazione di 33 mila abitanti ma il trend demografico era già in calo. Con la Variante al Piano regolatore del 1986 quelle aspettative furono ridimensionate a 38 mila abitanti. Aspettative sempre troppo ottimistiche, tanto è vero che oggi Novi Ligure conta circa 28 mila abitanti e ne sta perdendo ancora. Ma ecco qui di seguito una breve e riassuntiva storia urbanistica della città che si sta consegnando alle nuove generazioni carica di costi di gestione e di difficile manutenzione

Novi Ligure, così come si presenta oggi, altro non è che figlia di una politica che tra gli anni che vanno dal 1961 al 1986, ne condizionò irreversibilmente il suo sviluppo, trasformandola da una graziosa e ordinata cittadina di provincia in un “polpo informe”, per dirla con una definizione cara a Roberto Guiducci, ovvero al pari di una qualsiasi periferia urbana anonima e degradata.

A ricordare i fasti e l’accoglienza gentile di un tempo, oggi restano solo, oltre al suo Centro storico, i due grandi viali, quello dedicato ad Aurelio Saffi e quella della “Rimembranza” dedicato ai caduti, il Parco castello, l’aeroporto e alcuni angolini urbani, come le antiche villette, fortunatamente sopravvissute alla febbre del mattone, che, come in una odierna pandemia, ha colpito questa città a partire appunto dagli anni del boom economico, e che sta incredibilmente continuando ancora oggi.

Ma andiamo con ordine e per capire quali furono quegli esiti, che ancora oggi segnano la storia di Novi Ligure, occorre fare un passo indietro e precisamente agli anni in cui la città si dovette dotare di un Piano regolatore in sostituzione del vecchio Piano edilizio, ormai non più conforme alla Legge urbanistica del 1942.

Gli anni che precedettero l’approvazione del Piano Regolatore Generale del 1968

Per la precisione dovremo vedere ciò che accadde a Novi tra il 22 marzo 1961, data in cui  la città venne inserita in un elenco dei Comuni obbligati a dotarsi, a norma della legge urbanistica n.° 1150 del 17 agosto 1942, di un piano regolatore e il 18 marzo 1971, quando il Consiglio Comunale approvò il “Piano Regolatore Generale” redatto dagli architetti Todros e Mantelli di Torino, precedentemente  adottato con delibera consigliare n.° 12 del 14 febbraio 1968 dall’Amministrazione guidata dal sindaco Armando Pagella e sostenuta da una maggioranza di sinistra.

1961 – 1971: Gli anni della “febbre del mattone”

In quegli anni, dieci per la precisazione, Novi fu lasciata completamente in mano alla speculazione edilizia più selvaggia, perché, parafrasando il famoso appello degli ambasciatori saguntini (2° guerra punica, 219 a.C.), “Mentre in Consiglio si discuteva, in città si elevavano torri”.

L’Amministrazione allora in carica, non avviò infatti nessuna norma di salvaguardia per bloccare la “corsa al mattone” scatenata nel mondo dell’edilizia locale dalla paura di incappare nelle future restrizioni sulle aree fabbricabili che, nell’attesa dell’entrata in funzione del nuovo P.R.G., erano ancora regolate dal vetusto e permissivo Regolamento edilizio risalente al 1957, quando sindaco della città era Carlo Acquistapace.

Tra il 1961 e il 1971 infatti vennero erette le opprimenti costruzioni che testimoniano quel passato, come il condominio “Casella” (svettante di fronte alla ex Piazza del maneggio) e furono inferte indelebili ferite al Centro storico, come la realizzazione dell’enorme complesso di Largo Valentina.

Solo tra il 1961 e il 1963 furono edificati 1.737.296 metri cubi di nuovi fabbricati pari a 25.508 vani, incidenti su una superficie cementificata di 69.795 metri quadrati.

In quegli anni fu costruito “di tutto e di più”, con studi tecnici che, presi da una sorta di “frenesia urbanistica”, presentavano all’Ufficio tecnico comunale progetti redatti frettolosamente, a volte disegnati in forma incompleta, con planimetrie e prospetti addirittura non salvati, se non le quote, con l’inchiostro di china, come invece si sarebbe dovuto fare a quei tempi.

Da quel tipo di progettazione nacquero enormi palazzoni privi di gusto estetico, che ancora oggi opprimono il viale della Rimembranza, per non parlare di quelli realizzati in Viale Aurelio Saffi, dove i rami dei preesistenti platani oscuravano talmente le finestre, che in seguito si dovette procedere all’abbattimento (in corrispondenza della pasticceria Helvetia e del Bar Principe) di quelle piante centenarie.

Identica cosa accadde anche nell’area compresa tra via Felice Cavallotti e via Garibaldi, come nella zona di via dei Mille, Via Amendola e via Monte Sabotino, per citare le parti della città che più furono massacrate.

Tutte queste aree di appetibile interesse edilizio, che potremmo definire di prima fascia urbana, videro infatti ancor più lievitare il loro valore in virtù della scellerata scelta che fu fatta per l’individuazione delle aree da destinarsi all’edilizia economica popolare, la 167.

Queste aree per la 167, ove poi trovarono casa la gran parte dei residenti del Centro storico lasciato cadere (volutamente?) nell’abbandono e nel degrado, furono infatti previste su sedimi agricoli ubicati nelle estreme periferie cittadine, giustificando tale scelta in nome di un minor costo nell’acquisizione delle aree, dimenticando (volutamente?) però che per l’urbanizzazione di quei siti sarebbe stato necessario portarvi fognature, luce, gas, acqua e soprattutto strade e servizi, con grande dispendio di denaro pubblico.

Quindi se da una parte ci fu il risparmio iniziale d’acquisto, dall’altra, però, ci furono i nuovi e certamente più alti costi di urbanizzazione. Ovvero quelli per la “urbanizzazione primaria e secondaria di aree da rendere idonee alla civile abitazione”. E portando tale urbanizzazione verso la periferia, i politici dell’epoca, altro non fecero che favorire la speculazione privata sui sedimi intermedi ricadenti nella prima fascia urbana a ridosso del Centro storico e confinante con le aree agricole destinate alla 167.

Non sarebbe stato forse più opportuno realizzare le aree 167 sui sedimi di questa prima fascia urbana vicina al Centro storico e già considerata edificabile dal vecchio Piano edilizio, che nel 1961era ancora in gran parte “vergine” dal punto di vista degli insediamenti?

Perché dunque non allocare lì la 167, pagando certamente prezzi più alti per gli espropri dei sedimi per realizzare gli interventi di edilizia economica popolare, ma risparmiando sui costi ben più alti dell’urbanizzazione primaria e secondaria prima citata?

E perché poi mandare a vivere nell’estrema periferia centinaia di famiglie, sradicandole dall’originario nucleo abitativo che era il centro Storico?

Gli esiti di quella politica urbanistica

La scelta politica di spingere contemporaneamente un gran numero di nuclei famigliari, per la maggior parte formati da giovani coppie, nelle succitate zone agricole periferiche acquisite per la 167, produsse tre esiti estremamente negativi: il primo sotto il profilo urbanistico, il secondo sotto il profilo economico e il terzo sotto quello sociologico.

  • Sotto il profilo urbanistico infatti l’avere portato gli insediamenti per la 167 nelle estreme aree di espansione della città favorì sostanzialmente la speculazione edilizia, perché i sedimi ricadenti nella prima fascia urbana (quella a ridosso del centro storico), aumentarono enormemente di valore, in quanto divennero di ancor più “appetibile interesse residenziale” poiché su questa prima fascia urbana, soprattutto sui terreni allocati al di là della linea ferroviaria “Torino-Genova”, vennero costruiti alloggi allora ritenuti di pregio.
  • Sotto l’aspetto economico le ricadute per la comunità si dimostrarono ben presto molto pesanti, perché l’espansione urbana (per giustificare la quale il nuovo P.R.G. fu parametrato dai suoi progettisti sulla previsione di una città di 68 mila abitanti, poi ridimensionati a 38 mila con la Variante generale al P.R.G. del 1986)) verso le periferie, comportò un notevole impegno finanziario per le opere di urbanizzazione e una lievitazione dei costi di manutenzione della città e soprattutto nacque l’urgente necessità di realizzare sia una nuova rete idrica e fognaria, nonché una rete di trasporto urbano per garantire la mobilità ad una popolazione distribuita su un’area sempre più vasta. A fronte di tutto ciò i privati, ovvero i possessori di grandi aree edificabili, trassero dalla maldestra operazione mirata ad allocare la 167 nelle aree periferiche, grandi vantaggi, perché videro aumentare di valore i loro terreni ricadenti nella prima fascia urbana, ora ancor più valorizzata grazie al passaggio su di essa delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria tracciate e realizzate a servizio della 167.
  • Sotto l’aspetto sociologico il centro storico cadde in mano agli immigrati (l’allora “popolo delle valigie di cartone”) che andarono ad occupare gli alloggi lasciati abbandonati dagli originari nuclei famigliari, che, con la chimera dell’appartamento “nuovo e moderno”,  furono spinti a trasferirsi, in una sorta di migrazione interna, nella 167, la quale venne così abitata in maggior numero da giovani coppie, il cui reddito proveniva in gran parte dal lavoro dipendente (ILVA, Ferrovie, Industria) ed anche da qualche piccolo artigiano. Ciò creò nel tempo un invecchiamento collettivo e contestuale di una intera area della città, con le comprensibili ricadute psicologiche sui singoli soggetti. Nella fascia intermedia (già citata) si insediò invece la classe media, ovvero il ceto borghese, gli studi dei professionisti e in genere il terziario. E fu proprio lì, Viale della Rimembranza, Viale Aurelio Saffi, via Giuseppe Garibaldi, via Felice Cavallotti, via dei Mille, via Giuseppe Verdi, Corso Italia, per non parlare di visa Monte Sabotino e di via Amendola, che si sviluppò quella speculazione urbanistica prima citata la quale favorì i pochi penalizzando i molti (i cittadini che oggi si trovano a dover, con le tasse, mantenere una città enormemente dilatata in proporzione alla popolazione residente).

A tutto ciò bisogna aggiungere un altro risvolto: quello dei “buchi neri” della città, ovvero dei beni pubblici, come gli ex macelli, l’ex cavallerizza, le ex caserme, lasciati cadere nel degrado più assoluto mentre uffici pubblici, come l’Inps (sino a non molto tempo fa), l’Agenzia delle entrate, il Catasto, le riscossioni e quant’altro, vennero allocati, con relativi affitti d’oro, in immobili privati.

E quei pochi beni pubblici recuperati, o sono costati un occhio della testa o sono soggetti a “secolari” opere di ristrutturazione come il Teatro Romualdo Marenco, che è dal 1981 un eterno cantiere.

Una riflessione

La speculazione è comunque una “brutta bestia” perché rovina l’ambiente e alla lunga si ritorce sempre contro chi la fa. Il patrimonio edilizio novese oggi infatti è fortemente deprezzato e nei “palazzoni” ma anche nel Centro storico sono sempre più le persiane chiuse, mentre per le vie cittadine le serrande abbassate non si contano.

Ma soprattutto quanto sopra descritto, ha prodotto il paradosso di una città contrassegnata da un’urbanistica a forte stampo classista, realizzata e governata da una classe politica di Sinistra.

Gian Battista Cassulo

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